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Traffico d’avorio – mercato globale. Strage di indifesi elefanti.

di Gabriele Paolini

Traffico D'avorioCollane, bracciali, orecchini, statuette e ninnoli di ogni tipo. I banchi dei negozi per turisti di Khartoum, Omdurman e Khartoum Nord, in Sudan, offrono un’ampia scelta di oggetti in avorio. Il prezzo è abbordabile, segno dell’abbondanza della materia prima e del costo contenuto della manodopera. Un semplice anello a fascia vale appena due dollari, un pendente di quattro centimetri ne costa tre. Il mercato dell’avorio, che all’inizio del 1990 aveva finalmente subìto una flessione in Occidente, in seguito a campagne di sensibilizzazione sullo sterminio degli elefanti e l’introduzione di leggi internazionali in materia, ha ripreso a correre alimentato dalla domanda dei nuovi paesi emergenti, Cina in testa. Per produrre gioielli e statuine vengono uccisi ogni anno dai 6000 ai 12000 elefanti.

Il Sudan è l’epicentro della nuova tratta delle zanne dell’elefante africano, il più grande animale terrestre, discendente da un gruppo di mammiferi presenti sul pianeta da cinque milioni di anni. A rivelare l’amara realtà di questo redditizio business è un’inchiesta realizzata dal Dr. Esmond Martin, per conto dall’organizzazione animalista britannica “Care for the Wild International”. Secondo le leggi vigenti in Sudan vendere avorio non è reato se si è in possesso dell’apposita licenza e soprattutto se le zanne d’elefante risalgono ad un periodo antecedente il 1990. A partire da questa data gli elefanti africani sono stati inclusi nell’appendice I della Convenzione di Washington, Cites (Convention on International Trade in Endangered Species), convenzione internazionale sul commercio delle specie protette, di cui il Sudan è firmatario. Secondo l’accurata ricerca sul campo del Dr. Martin nessuno degli oggetti in vendita nei negozietti di souvenir sudanesi è ingiallito dal tempo, in quanto ben più recenti rispetto a quelli che la normativa che regola il commercio dell’avorio consentirebbe di commercializzare. L’equazione con la carneficina di elefanti in atto è evidentemente risolta. Per avere un’idea più precisa di quanto denunciato dall’inchiesta sul traffico illecito d’avorio, basta osservare alcuni dati. Su cinquanta negozi visitati in tre città del Sudan dall’autore della ricerca, gli oggetti in avorio rinvenuti ammonterebbero a 11000 esemplari circa. Non risulta, secondo l’inchiesta, che le autorità sudanesi preposte al controllo della vendita di questo materiale, sottoposta a precise normative internazionali di commercializzazione, effettuino verifiche presso i punti vendita di oggetti in avorio. Principali acquirenti di zanne trasformate in statuine e gioielli sarebbero diverse migliaia di espatriati cinesi residenti nel paese africano, impiegati in diversi settori: edile, minerario e soprattutto petrolifero. Oltre ad essere acquistato dagli espatriati l’avorio viene esportato in Cina. Questo paese a partire dal 1990 è diventato il maggiore importatore mondiale di oro bianco. Assodato che l’avorio in viaggio verso oriente via Khartoum non risale a quindici o vent’anni fa, il Sudan ed i complici acquirenti sono dunque protagonisti di un colossale traffico illecito d’avorio. Ma non è solo l’Asia Orientale la destinazione finale delle zanne sbriciolate degli elefanti africani. L’Egitto ed alcuni paesi arabi, in particolare l’Arabia Saudita, costituirebbero importanti centri di lavorazione artigianale del prezioso materiale. Le aree in cui avviene lo sterminio dell’elefante africano sono soprattutto zone di conflitto. Per quanto riguarda il Sudan, le zanne arrivano dalla parte meridionale del paese, teatro di un ventennale conflitto conclusosi nel gennaio di quest’anno (attualmente il Sudan è interessato dal conflitto in Darfur, nella zona occidentale del territorio). A far fuori i pachidermi sarebbero, secondo l’inchiesta, principalmente militari sudanesi. Se l’animale ha fortuna può essere ucciso con un solo colpo d’arma da fuoco alla testa. La sofferenza è in questo caso certamente minore rispetto all’essere feriti, mutilati delle zanne e attendere la morte per qualche giorno. Non solo in Sudan i militari sono i principali responsabili del bracconaggio. Possedere armi e munizioni, mezzi di trasporto e soprattutto “l’autorità” per chiudere la bocca a scomodi testimoni, aiuta decisamente nel portare a termine l’impresa. Tra i principali fornitori di materia prima dell’attuale traffico illecito d’avorio, oltre al Sudan, vi sarebbero secondo la ricerca, la Repubblica Centrafricana ed il Ciad, ma sopratutto Repubblica Democratica del Congo (Rdc), immenso paese dal ricchissimo sottosuolo, devastato da cinque anni di guerra civile ed attualmente in fase di transizione. La Rdc è uno stato ancora fortemente destabilizzato con focolai sempre vivi di conflitto nella parte orientale. Il caos provocato dalla guerra è l’ideale per il perpetuarsi di ogni tipo di illecito. Secondo l’inchiesta di Care for the Wild International, bracconieri provenienti dal sud del Sudan si introdurrebbero nel parco nazionale congolese di Garamba per massacrare gli elefanti. Anche il rinoceronte bianco, dal cui corno viene estratto avorio è stato quasi sterminato. Questi animali fino a non molti anni fa popolavano in branchi numerosi le infinite distese del continente africano. Fino al 1979 si stima vivessero in Africa un milione e 300000 elefanti. Nel 1989 ne restavano poco più di 600000. L’elefante africano è oggi presente su meno di un quarto del continente continente. Ormai hanno maggiori chanches di vedere gli elefanti i turisti che visitano l’Africa, per provare il brivido del safari organizzato dal tour operator di casa propria, che gli stessi africani, che, a meno di essere ricchi (e i ricchi in Africa sono pochi), generalmente non frequentano i magnifici parchi nazionali africani. Stabilire quanti elefanti o quanti rinoceronti, come altri animali, siano rimasti in zone di foresta o savana attraversate dai conflitti, è impossibile. La sola certezza riguarda la progressiva scomparsa degli animali da molte zone del continente africano. Senza interventi immediati per fermare la mattanza dei pachidermi, l’avorio dei 12000 elefanti uccisi quest’anno che, col tempo ingiallirà al collo di qualche dama elegante, rischia di restare il solo ricordo del mitico, splendido, elefante africano.

 

Purtroppo l’avorio resta un componente essenziale degli oggetti sacri ed ha una forte valenza simbolica anche in politica. Basti pensare che il Presidente del Libano Michel Suleiman ha regalato a Papa Benedetto XVI un turibolo d’oro e d’avorio. Nel 2007 la presidente delle Filippine, Gloria Macapagal Arroyo, aveva donato a Ratzinger un Santo Niño d’avorio, l’icona delle Filippine. Nel Natale del 1987 il presidente Ronald Reagan e sua moglie Nancy acquistarono la Madonna d’avorio che avevano ricevuto come dono di Stato da Giovanni Paolo II. Persino Daniel Arap Moi, il Presidente del Kenya, considerato il padre dell’accordo sul divieto del commercio di avorio, una volta regalò a Papa Giovanni Paolo II una zanna di elefante. Nella Galleria Savelli, affacciata su piazza San Pietro, l’avorio è offerto in ogni vetrina. E lo Stato del Vaticano, che pure ha sottoscritto accordi internazionali contro il traffico di droga, il terrorismo e la criminalità organizzata, mai ha firmato la Convenzione di Washington che protegge le specie in pericolo (è stata sottoscritta da 176 stati).

 

A proposito della vendita di avorio nella Città del Vaticano, credo che la cosa più importante non sia se le opere siano legali o illegali, ma piuttosto chiedersi se venderlo è cosa giusta. Ormai è accertato, per avere quell’avorio si uccidono in maniera brutale elefanti, si uccidono i rangers che devono proteggerli, si alimenta una corruzione mondiale. E così gli scambi di doni tra capi di Stato, sono un messaggio sbagliato, dicono al popolo che l’avorio è un mezzo appropriato per esprimere la loro devozione. Ecco i leader della chiesa cattolica hanno un’opportunità straordinaria per fare la differenza per la sopravvivenza degli elefanti. A loro bastano poche parole: basta con le icone religiose in avorio.

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