A CURA DI GABRIELE PAOLINI.
LEGGI, CON ATTENZIONE, LA TERZA BIOGRAFIA DEDICATA A GABRIELE PAOLINI, SCRITTA DAL FILOSOFO ALESANDRO STAFFFIERI.
TITOLO: LA MIA FAMIGLIA ‘MALATA D’IPOCRISIA’.
SOTTOTITOLO: HO TRE SORELLE, ROSSELLA, IMMUNOLOGA, MAI SPOSATA, MARINELLA, FOTOGRAFA D’ARCHITETTURA, LESBICA, SILVIA, SOCIOLOGA, LESBICA. A ME PIACCIONI GLI UOMINI. IO SAREI QUELLO STRANO?.
AUTORE: ALESSANDRO STAFFIERI.
EDITORE: FELIS EDIZIONI.
PRIMO CAPITOLO.
TITOLO: “SILVIA PAOLINI, SOCIOLOGA, CONSULENTE E CAPOGRUPPO TUPPERWARE, LESBICA”.
N.B.: In data 16 novembre 2007, mia sorella, Silvia Paolini, sociologa, mi ha fatto avere questo scritto, che ha, come titolo: “IL SENSO DELLA VITA”.
“Pensavo di avere vissuto momenti intensi nella mia vita. Ma niente a confronto di questa esperienza puo’ tenere il passo. Sono pronta a raccontarti una storia Gabriele, che inizia con una corsa in moto contro il tempo, un sabato mattina. Quel sabato mattina stavo rientrando a casa perche’ il giorno prima ero uscita per andare a fare la denuncia della tua scomparsa: poi mi sono fermata a dormire da mamma e papa’ perche’ tu da due giorni non davi notizie e non si poteva affrontare un’altra notte senza che tu lo facessi. Almeno non lasciandoli soli ad attendere. Hai chiamato quella notte e, ancora una volta, reclamavi il nostro aiuto attraverso la stampa e i media che nessuno di noi aveva allertato dal giorno della tua assenza. Ma a differenza di tanti anni fa, questa volta al telefono non ti ho assecondato, perche’ ho rivussuto una scena gia’ vista e questa volta volevo che il finale fosse diverso. Sei andato su tutte le furie, promettendo disastri a tutti i livelli, palesando dubbi sulla nostra e tua sicurezza, parlando di rumeni con i mitra spianati che a tratti difendevano il tuo cammino e a tratti lo ostacolavano tra mille pericoli. Rendendoti forte, fragile, aggressivo, violento a parole e pesante di accuse che partivano come schegge impazzite in ogni direzione. Hai provato a scuotermi in mille modi diversi in quella notte infinita, ma non mollavo e solo all’alba del sabato hai voluto parlare con tuo padre, colpendolo sul lato piu’ debole, il farlo sentire impotente di fronte ad una situazione piu’ grande di lui sotto la quale, dicevi stavi soccombendo.
Sotto la minaccia di armi da fuoco che sparano colpi duri, ma senza lasciare corpi stesi alle spalle, ma corpi che vagano come fantasmi in case che non riconosco piu’. Il tuo fantasma, per primo, quello di un uono che si illudeva di riuscire a gestire un corpo impaurito delle tue stesse paure, che cercava di dominare. Ti muovevi al buio e, a tentoni, cercavi una luce, un ristoro, un po’ di calore dal forno di una cucina e dal fuoco di un camino che bruciava legna umida che non riusciva a scaldare. Il tuo fantasma si muoveva nella casa in cui, da sempre, hai trovato conforto, pace, ma che ora ti respingeva anziche’ accoglierti, e che hai dovuto sfidare a colpi con la forza, rompendo vetri, prima di conquistare il suo ingresso. C’era anche il mio fantasma quella notte, quello di una donna che nel letto dove è cresciuta, non si dava pace perche’ era da giorni che tentava di raggiungerti. Mi sfuggivi sempre per un soffio, ma questa volta sentivo che sarebbe stato ancora per poco. E poi c’erano i fantasmi di tuo padre e di tua madre, soprattutto. In quella telefonata mattutina anche papa’ questa volta non ti ha assecondato e ha perso la pazienza, passando nervosamente il telefono a mamma. Hai provato a fare breccia con lei, questa volta colpendo nella sua apprensione di madre, che non vuole altro che riabbracciare il figlio che, ancora una volta, si allontanava da casa alla ricerca di chissa’ cosa, e non sa quando torna. Ma anche lei. non è riuscita a trasmetterti la tranquillita’ che cercavi. Dalle tue parole è trapelato il luogo della tua tana: eri a Rivodora. Avevo finalmente un posto sicuro dove raggiungerti.
Sono salita in moto destinazione aeroporto e da li’ è partita la mia corsa contro il tempo, quella di cui parlavo all’inizio della storia che ti sto dedicando; sul primo volo per Torino ho respirato per la prima volta l’ansia di chi non sa se arrivera’ in anticipo o in ritardo ad un appuntamento con una vita che non si sta piu’ contenendo perche’ sgretolata da mille pressioni che non la rendono definita e definibile. Le protezioni della mia giacca tecnica da moto mi infastidivano ma non riuscivo a toglierla da dosso perche’ tremavo di un freddo che non c’era e che rendeva strana la visione di quel sole forte filtrato dai miei occhiali scuri. Mi e’ sembrato interminabile quel volo. Sapevo che l’abbraccio con Cristina al mio arrivo a’ avrebbe allentato la tensione del mio stomaco che faticava a contenere la responsabilita’ pesante di quel ‘testimone bollente’ che stavo trasportando con me mentre ti raggiungevo. La responsabilita’ di una mia azione voluta, prepotente, determinata, sostenuta da una famiglia in bilico tra la convinzione che fosse la cosa piu’ giusta e la preoccupazione delle conseguenze pesanti che avrebbero potuto compromettere la tua vita e quella di tutti noi. Piu’ di quanto gia’ non lo fosse. Questo mi ripetevo in quell’ora di volo sopra le nuvole in cui è passata tutta la mia vita e tutta la tua, aggrappata a quell’ultima casa dei Tetti Bertinetti. Non sara’ peggio di cosi, mi dicevo, capira’ che sono li’ per aiutarlo, per aiutarmi, per aiutare una famiglia che sta crollando, inesorabilmente. Per aiutare un uomo giovane che amo e in cui credo piu’ che in qualunque altra cosa al mondo. Da atleta incosciente, forse, quella che non si da’ mai per vinta sul campo da tennis, e che in quel momento sentiva di essere scesa in campo per il quinto set di una finale di un torneo del Grande Slam. Vietato mollare, costi quel che soti. Cristina era li’, piu’ bella che mai, e mi ha dato la forza e il sostegno per raggiungerti; ha guidato decisa senza neanche chiedermi la strada perche’ gia’ la conosceva senza esserci mai stata prima. Una pattuglia dei carabinieri ti aveva gia’ raggiunto nella nostra casa, ma si era allontanata perche’, dicevano, tu eri risultato tranquillo. Ho urlato al telfeono chiedendogli di tornare accompagnati dal sostegno di un 118 e di uno psichiatra. La mia determinazione, unita ad una lucida disperazione li hanno convinti a tornare, questa volta decisi a guardare oltre e dietro la tua maschera.
Il mio compito, ingrato ma per me indispensabile, era quello di farla cadere quella maschera confusa e fortificata dal personaggio Paolini per fare apparire Gabriele fragile e spaventato che io vedevo perfettamente davanti ai miei occhi anche prima di arrivare in quel cortile, e gia’ da molto tempo prima. Quel Gabriele misto al personaggio Paolini, che e’ stato fino all’ultimo secondo la tua difesa piu’ grande, si è spaventato e sorpreso vedendomi arrivare davanti all’ingresso di casa, ma un istante dopo aveva capito perfettamente cosa sarebbe successo di li a poco. Conosci la mia determinazione da sempre, e un po’ la invidi anche, ma nonostante questo hai provato a difenderti con le tue armi, in mille modi diversi. Lo hai fatto colpendomi con le parole, rivolgendoti a me dandomi del lei, cercando di farmi uscire da quella casa, tenendomi chiusa a chiave li’ dentro, sfidandomi in una conversazione chiusa nei silenzi, minacciando provvedimenti legali, offrendomi sigarette e latte caldo uniti alla tua fittizia collaborazione che avrebbe voluto allontanare tutta quella gente scomoda.
Ma quella gente non ha mollato il campo, ha solo temporeggiato, scrutato i miei sguardi e le mie parole, interpretato i miei silenzi, aspettato le provocazioni che, ora, ero io a fare a te. Contemporaneamente studiantodi in ogni particolare, lasciandoti fare, apparentemente senza contenerti, ma solo osando, di tanto in tanto, con qualche parola o qualche consiglio misto a qualche necessario controllo medico da te gestito cn mestiere. Si stava aspettando l’arrivo dello psichiatra e tu intanto parlavi, urlavi, provavi ad incanare quel pubblico involontario con il tuo show, a tratti ridevi, fotografavi quelle immagini quasi irreali del nostro cortile pieno di mezzi che contrastavano con la visione del castello alle spalle, e con gli sguardi curiosi di gente che osservava un campo troppo grande per contenere ogni dettaglio importante. Dettagli che non sfuggivano, pero’, alla vista di chi sapeva cosa e dove guardare.
E tutto questo sotto un’aria ferma, quasi irreale, non proporzionata a quella situazione tragica e grottesca allo stesso tempo. Faceva freddo, di quello che entra nelle ossa e io che non avevo mai smesso di tremare continuavo a farlo, ma non lo sentivo neanche piu’. Di colpo se uscito in direzione casa di Barbara e hai incontrato per la prima volta gli occhi di Cristina che aspettava notizie senza farsi vedere.
Credo che tu abbia avuto bisogno di uscire fuori da quel cortile opprimente e dalla pesantezza di quella situazione e di quegli sguardi intorno che iniziavano a spaventarti. Sei arrivato davanti a lei, hai chiesto chi fosse, vi siete presentati con una stretta di mano; naturalmente, senza che nessuno ve lo chiedesse, siete tornati insieme verso casa. Tu le hai chiesto di entrare; volevi parlare di me, sapendo gia’ esattamente chi fosse lei e senza la necessita’ di aggiungere altro. Ma il contesto, ora, era quello di un quadro impazzito con i personaggi che entrano ed escono disordinatamente dall’opera d’arte sgretolando vetri infranti e facendo cedere una cornice che non sostiene piu’ nulla.
I vostri tentativi di dialogo sono stati interrotti mille volte da telefonate, parole urlate o sussurrate, pensieri, sbalzi di umore improvvisi, tensioni piu’ o meno tangibili. Stavamo fumando una sigaretta insieme vicino al tavolo da ping pong quando, di colpo, sono entrati in casa sette tutti con i guanti di lattice indossati, seguiti da una nuova persona che ancora non si era presentata a nessuno di noi. Probabilmente era lo psichiatra, ma non è stato necessario il suo intervento perche’ a quel punto il medico del 118 ha detto che non c’era il tempo e ti ha chiesto di seguirlo in ambulanza. I tuoi occhi si sono riempiti di panico, vero; hai chiesto se avrebbero potuto convincerti con la forza e lui ha detto di si, se fosse stato necessario. Ti hi visto braccato, e dentro hi tremato ancora piu’ forte di quanto stessi gia’ facendo. Mi sono alzata in piedi, in silenzio, e non ho smesso di cercare i tuoi occhi. Volevo suggerirti di muoverti con le tue gambe e contemporaneamente volevo dirti che stavo li’ per sostenerti e che non ti avrei mollato un istante. E’ stato il momento piu’ difficile di tutte quelle ore. Eravamo al tie break diq uel quinto set e di li’ a poco si sarebbe dichiarato il vincitore dell’incontro. Tu hai capito solo allora che non avresti avuto scampo, ti sei alzato e hai detto che li avresti seguiti, con le tue gambe, dopo esserti cambiato. Mi hai chiesto di accompagnarti al piano di sopra e ogni scalino che salivo era come se stessi scalando una montagna. Ma e’ stato ancora piu’ difficile scenderla quella scala. Tu cercavi di dimostrare una calma apparente a me a al carabiniere che era salito con noi. Ci siamo abbracciati in silenzio, sommersi dalle lacrime che si mischiavano al nostro abbraccio. Mi hai detto che eri pronto ad andare.
Sei uscito da casa e io dietro di te ho chiuso la porta lasciandoti attraversare il cortile da vincitore di quel’incontro infinito, indimenticabile ed estenuante. Eri tu a salire volontariamente su quell’ambulanza iniziando e finendo con me, in quello stesso istante, l’ennesima sfida come quelle che si lanciano spesso, in tutta la vita. Anche l’immagine dell’ultimo tuo sguardo nella mia direzione conteneva un sorriso pungente prima che il rumore forte del portellone che si chiudeva davanti ai miei occhi mi facesse sussultare in silenzio. Non potevo salire con te, ma potevo seguire l’ambulanza a la macchina dei carabinieri che correvano a sirene spiegate. Un attimo prima di partire Cristina mi ha sorriso con gli occhi, mi ha trasmesso tutta la sua forza, mi ha preso la mano emi ha chiesto se riuscissi a reggere ancora; lo he detto che non avevo altra scelta e siamo partite in silenzio passandoci tra le dita che tremavano l’ennesima sigaretta, senza dire una parola, per un po’. Concentrate su quelle luci forti e quel rumore che infrangeva i pensieri troppo carichi, che si facevano trasportare a tutta la velocita’. Quel viaggio conteneva molto piu’ di tre macchine che si stavano rincorrendo. Conteneva la mia paura, la tua, quella di tutti i coloro che seguivano quella scia idealmente e materialmente, e il rischio di cio’ che ancora non conoscevo ma che ancora non conoscevo ma che ci stavamo accingendo ad affrontare tutti insieme a tutta la velocita’.
Cristina non ha mai perso la strada, la direzione da seguire, la luce da rincorrere; come se fosse il suo mestiere, e’ stata li’ partecipando all’inizio in disparte, poi in silenzio e, all’occorrenza, con le parole giuste, i tempi giusti, il calore giusto, a volte riempendo il mio vuoto interiore con un semplice sguardo carico di energia, o sollevandomi dalle mie paure con una carezza sottile. Arriviamo al pronto soccorso e tu ricominci a darmi del lei, a rifiutare la mia presenza, a chiedermi di andare via, di sparire da te, per sempre. Il primo impatto con lo psichiatra è stato faticoso per entrambi e in quella sala d’aspetto con Cristina ero convinta che ti avrebbero mandato via di li a poco. Dopo circa un’ora invece il carabiniere che era dentro con te, mi chiede di seguirlo e arrivo in un stanza in cui tu, molto piu’ calmo, mi comunichi la tua volontaria intenzione di farti ricoverare per recuperare un po’ di energie. Mi dici di essere molto stanco di aver bisogno di riposo; ci abbracciamo in un abbraccio di pace, e ci diamo appuntamento in reparto poco piu’ tardi con tutto cio’ che sarebbe stato utile per la tua degenza, Abbraccio forte Cristina, ora, che mi aspetta fuori; mi sussurrava che sono stata brava, che sono riuscita a fare cio’ che era giusto fare e che dovevo tenero duro ancora un po’ per affrontare l’ultima parte di quella giornata, forse la piu’ delicata, anche se non ce lo confidiamo ancora. Ti raggiungiamo in reparto un’ora piu’ tardi e tu sei arrabbiato, stanco, spaventato, esausto. Fumiamo una sigaretta insieme e i chiedi di guardarmi intorno e di raccontare a tutti cio’ che vedo. Prometti di farmela pagare, in un modo o nell’altro. Rimango in silenzio appesantita dalle tue parole e dal tuo sguardo confuso dalla terapia appena somministrata. Ci salutiamo malamente e tu prometti di non volermi vedere l’indomani e mai piu’. Intorno a noi gente con lo sguardo perso che si accorge e non si accorge di noi, perche’ occupata in pensieri che sembra finiscano, lontano, chissa’ dove. Bisogna avere pazienza e aspettare l’indomani. La prima notte io non riesco a dormire a trovare pace, ma tu, invece, mi racconterai la mattina dopo, ti abbandoni ad un sonno pesante che copre ogni tensione e ti rende piu’ rilassato. Mentre mi abbracci, mi chiedi, scusa, ammetti di essere nel posto giusto, e mi ringrazi per averti portato li’. Io piango, finalmente. Da quel momento fino al momento della mia partenza, tre giorni piu’ tardi, ogni incontro co te è stato un susseguirsi di emozioni che sono certa raccontino meglio i miei occhi delle mie parole, perche’ talmente intense, da avere difficolta’ a definirle. Ogni parola e ogni incontro di sguardi con te e con le persone con cui hai condiviso questa esperienza di vita, mi ha lasciato un segno che portero’ per sempre dentro di me con la convinzione che esiste un momento magico nella vita di ognuno di noi che dura un secondo e che, con una connotazione mistica e soffusa, da’ senso alla vita. “Questo è Dio”, diresti tu. Quel senso l’ho trovato nel nostro abbraccio di arrivederci in quel corridoio di ospedale dal quale ancora una volta sei stato tu ad uscire vincitore, a testa alta, mentre coprivi le lacrime con sguardo fiero e ti incamminavi deciso in direzione della tua stanza, a raccogliere le tue cose, perche’ sapevi che presto avresti dovuto proseguire il tuo cammino in altre direzioni. Oggi è il giorno della tua dimissione, e proprio in questo momento mi chiedo se riuscirai, una volta fuori, a sentirti piu’ o meno libero di come tu sia stato in questi giorni, volontariamente ricoverato in un reparto di psicoterapia chiuso a chiave. Non voglio augurarti altro che essere sempre te stesso, indipendente e autonomo, autentico e vero, lucido ed emozionato come in quell’abbraccio. Capace di credere nelle parole che hai saputo manifestare a me e alle persone che hanno avuto la fortuna di incontrarti in questo momento in cui, piu’ fragile, sei stato ancora piu’ a contatto con la sua interiorita’.
E soprattutto spero che tu possa innamorarti ed esprimere a chi vorrai, la grandezza del tuo cuore fragile, sensibile e forte anche, quando è il caso di esserlo. Perche’ i miracoli del cuore spesso fanno piu’ strada di qualsiasi altra forma di fede. E soprattutto perche’, al di sopra di tutto, io credo in te e non ti avrei mai portato in un abisso cosi’ profondo se non avessi saputo con certezza che tu saresti stato in grado di risalirlo. Questo scritto è per te e parte del mio cuore con l’amore di sempre, se possibile ancora piu’ grande dopo questa esperienza dei vita, insieme.
Silvia Paolini.