di Gabriele Paolini
Sono all’incirca un centinaio di milioni gli squali uccisi ogni anno in tutto il mondo, una cifra di gran lunga superiore a quella che consentirebbe il recupero di molte popolazioni di questi pesci.
Vengono uccisi ogni anno una percentuale compresa tra il 6,4% e il 7,9% di squali di tutte le specie. Per avere un’idea di cosa rappresentino queste cifre, basti sapere che in base alle analisi degli studiosi (condotte su 62 specie di squali), affinché le popolazioni di questi pesci restino stabili non si può superare una soglia del 4,9% di uccisioni annuali. Qualunque percentuale superiore a questa rappresenta una minaccia per la sopravvivenza a lungo termine di specie come lo squalo “longimanus”, lo “smeriglio” o vari squali “martello”. Gli squali inoltre sono animali particolarmente a rischio in quanto impiegano molto tempo a crescere e sono poco prolifici. La colpa di questa strage è della proliferazione della pratica illegale del “finning”, ovvero la rimozione delle pinne, che è aumentata vertiginosamente dal 1990 per rispondere alla crescente domanda di zuppa di pinne di squalo, considerata una prelibatezza in varie zone dell’Asia al pari del tartufo o del caviale: una ciotola di zuppa può arrivare a costare persino 60-70 euro.
Anche se la caccia ad alcune specie di squalo è consentita, il “finning” illegale avviene quando i pescatori rimuovono le pinne dagli squali vivi e poi li ributtanto in mare agonizzanti e senza dichiararne la cattura una volta tornati in porto per evitare di superare le quote di pesca consentite. Inoltre, la cifra 100 milioni è una stima per difetto: potrebbero in realtà essere 273 milioni gli squali uccisi ogni anno.
Molti paesi hanno l’autorità per combattere questo fenomeno effettuando controlli più stretti sui pescatori e le catture effettive; ma negli ultimi anni arrivano richieste sempre più pressanti affinché la “Conference on International Trade of Endangered Species” (‘CITES’) intervenga a regolare il commercio delle specie maggiormente a rischio.